Sono stata felice dell’invito di Wanted Cinema per l’anteprima milanese di Sick of Myself, martedì 19 settembre al Cinema Arlecchino. Era un film che stavo aspettando: ne avevo sentito discutere e mi aveva incuriosita parecchio (specie dopo aver visto la locandina).

In sala, prima della visione, Andrea di shivaproduzioni ci ha fatto una breve lezione sul cinema di genere e ci ha dato una spiegazione psicologica spoiler free di quello che avremmo visto sullo schermo.

Il disturbo istrionico della personalità, unitamente al narcisismo patologico. Due disturbi che sono fatti di brama di attenzione, di fama e di visibilità. Sullo schermo, qualsiasi cosa, sebbene assurda e surreale, va bene pur di ottenere un po’ di visibilità.

Ho trovato il film molto interessante sia dal punto di vista prettamente psicologico, sia dal punto di vista registico e del montaggio. Forse uno dei più belli e ben fatti di questa stagione estiva.

Ma una problematica come questa, così delicata, come può essere raccontata in modo efficace al cinema?
Il disturbo istrionico della personalità è una malattia e l’esordiente regista Kristoffer Borgli la presenta letteralmente come tale. La macchina da presa sta costantemente addosso alla protagonista, mostrandola ora nei momenti in cui si sente “l’esclusa”, ora alla ricerca disperata di qualcosa da fare o dire per far tornare l’attenzione su di sè.

Ho amato questo tipo di regia, che quasi non lascia scampo ai personaggi, è soffocante. Dietro questa scelta c’è sicuramente la voglia di far provare allo spettatore quello che sta provando Signe.

Quello di Kristoffer è un film che non è la solita commedia che addolcisce tutto ma un genere più grottesco, capace di far ridere sì, ma anche disturbare e di portare lo spettatore a farsi domande sui personaggi, su di sé e su chi si ha intorno. 

Per tutta la durata del film non ho fatto altro che pensare cose tipo: “No, ma non può essere vero”, “Adesso la scopriranno e saranno cazzi”, “Non può andare peggio di così”.

E ancora mi sono chiesta come facessero il fidanzato, le amiche e i colleghi a non accorgersi dei comportamenti che la ragazza metteva continuamente in atto. Non ho potuto fare a meno di pensare al fatto che Signe “è esistita” anche prima e “continuerà ad esistere” dopo il frammento della sua vita che il regista ha deciso di mostrarci.

I mali di Signe, per quanto elevati a una dimensione patologica ed autodistruttiva, sono quelli che, in piccolo, in molti si portano dietro: l’invidia, la voglia di farsi notare, di affermarsi in un mondo dominato dalla superficialità e dall’immagine.

E quando hai una costante necessità di essere al centro dell’attenzione, la posta da giocare è sempre più alta e qui entrano in gioco le bugie, le pasticche, l’arrivare anche a farsi del male consapevolmente perché nell’essere malata le persone ti considerano. Questo, se mi confermo a riflettere, è assolutamente folle, ma quante persone ci sono attorno a noi che mettono in atto tali strategie?
E folle è anche il pensiero che questo meccanismo, in qualche modo, possa farti arrivare al “successo”.
Su questo concetto, poi, il film si interroga sul cosa siamo disposti a fare e fin dove siamo disposti a spingerci per ottenere e mantenere il successo ottenuto.

#SickOfMyself è distribuito in Italia da #WantedCinema e dal 5 ottobre lo troverete nelle sale. Non è un horror, quindi mi sento di consigliarne la visione soprattutto perché, Ve ne renderete conto, è un film che fa riflettere.